Cos’è l’amore?
L’amore non esiste.
È un pensiero astratto.
Astratto a sorte.
Da un destino che ci vuole amanti di chi non ci ama.
È il cane che si morde la coda.
E poi se la lecca.
Ché s’è fatto male.
Allora lecca le ferite che lui stesso si è procurato.
Ah, l’amore!
Si fa presto a dire amore.
Amore qua.
Amore là.
E nessuno che possa dire con certezza di averlo provato almeno una volta nella vita.
O di averlo visto.
Com’è fatto l’amore?
L’amore è un tipo che si è fatto da sé.
Un self made love.
Ognuno ama a modo suo.
E l’amore non guarda in faccia nessuno, no.
E se qualcuno soffre che gliene importa all’amore?
L’amore se ne love le mani.
E chi s’è visto s’è visto.
Di certo non s’è visto l’amore.
Quello vero.
È un fantasma.
Un fantasma all’opera.
Spesso protagonista di tragedie.
L’amore è un dramma.
“Come stai?”
“Lasciami stare. Sono sotto un dramma.”
Ah, l’amore!
Tutti bravi a parlar d’amore, però.
“Sei l’uomo/la donna della mia vita.”
La precedente?
O quella futura?
L’amore non è mai presente.
È solo un’illusione.
Ottica.
“Ma io l’ho toccato con mano!”
Allora per te si è trattato di un’illusione tattica.
L’amore è il sovrano di un regno che non esiste.
“Oh mia Regina. Parlami d’amore!”
“È da mo’ Re che ti parlo!”
È inutile: l’amore non è in casa.
E non è un caso.
“Risponde la segreteria telefonica dell’Amore. In questo momento non ci sono. Ma lasciate un messaggio. Sarete amati al più presto.”
Click.
Mese: febbraio 2014
Il mio mal di te sta nel cuore
“Ho mal di testa.”
“Ma se non hai una testa, tu!”
“Embè? Mi fa male, ti dico.”
“Come può farti male ciò che non hai?”
“E’ proprio qui che ti sbagli. Fa sempre più male ciò che non si ha. O ciò che si è avuto in passato ed ora non c’è più.”
“Allora dimmi. Raccontami della tua testa. E del tuo dolore.”
“Ho perso la testa quando ho capito di averla molto a cuore.
Era nel posto sbagliato, forse.
Cuore e testa: due nemici/amici giurati.
Ed il processo (di rottura) inevitabile.
Dove c’era uno non poteva esserci l’altro.
E così sempre.
Allora giù litigi per stabilire chi dei due avesse ragione.
Il cuore, bravo ad argomentare per (cu)ore e (cu)ore, senza mai arrivare al cuore (della questione).
E la testa, ragionamenti a non finire per poter dimostrare di essere l’unica ad aver diritto di ragione.
E in uno di questi ragionamenti infiniti la mia testa si è persa.
E non è più tornata.
Ha lasciato campo libero ad un cuore subito pronto a dettar legge (“Al cuor non si comanda!”).
E giù emozioni una più forte dell’altra, passioni sfrenate e dunque incontrollabili, lacrime dolci e amare.
Una giostra emotiva senza (e)motivo.
Ed è lì che, tra un pianto ed un sorriso, ho cominciato a realizzare di avere una mancanza.
Di avere una mancanza, sì.
O meglio: di non avere una presenza.
Ed ecco il dolore.
Il dolore per ciò che non c’è.
Il dolore per un vuoto che sembra incolmabile.
Il dolore vivo per ciò che non vive più.
E mi fa male, sì.
Perché il cuore ha bisogno della testa, anche solo per litigare.
O per mitigare i suoi sbalzi d’amore.
Devo ritrovare ciò che ho perduto.
Lo devo fare per me.
Solo per me.
Te sta’ qui.
Io vado e torno.
(e te lo dico così: col cuore in mano)”
Di quei giorni in cui ti senti bellissima
E ti guardi allo specchio.
E ti stupisci.
Ché di solito non ti piace quello che quel tipo lì ti mostra a muso duro.
No.
E allora passi minuti e minuti e minuti che fanno presto a diventare ore e li passi lì,
davanti a lui, perché proprio non ti piaci.
E tu tutti quei minuti lì davanti proprio non te li puoi permettere.
Ché sei sempre in ritardo.
E te lo dicono tutti.
E tu arrivi trafelata e di corsa, accampando mille scuse, “c’era traffico”, “la macchina non partiva”, “ero già vestita e mi sono macchiata col caffè macchiato” e…
Basta.
Tanto non ti crede più nessuno.
Ti conoscono bene, ormai.
Come il tuo specchio.
“Specchio, specchio delle mie brame. Se non sono io la più bella del reame non dirmelo, per favore.”
Tanto quello non ti ascolta mai.
Parla prima ancora di riflettere.
E ti mostra quella tipa strana che proprio non ti piace.
Te la mostra, la mostra.
E tu sei già in ritardo e continui a risistemare il mascara, no no, meglio il rossetto, accidenti! era meglio quello di prima, e i capelli, un disastro! mai in ordine, mai!
Ma oggi ti guardi allo specchio e ti stupisci.
C’è qualcosa di strano.
Più strano del solito.
Qualcuno deve aver cambiato qualcosa.
O qualcosa, forse, ha cambiato te.
Boh?
Ti guardi ancora e ti piaci!
Sì, ti piaci!
Il mascara è ok.
Il rossetto pure.
E i capelli, poi!
Hai quasi paura di toccarli quei capelli così neri e ricci e in disordine perfetto.
Hai paura di rompere l’incantesimo.
Stavolta lo specchio ti sta dicendo che sei tu la più bella del reame.
Proprio tu.
E tu incassa e porta a casa.
Anzi no: porta fuori ché ti stanno aspettando.
Magari per una volta arrivi pure in orario.
(di quei giorni in cui ti senti bellissima)
(giorni così: senza un per chi)
(forse per te)
Tutto d’un fiato
Tutto d’un fiato così voglio scrivere tutto d’un fiato senza fermarmi senza pensare come se tutto fosse già pronto per uscire e volare volare volare lì dove il cielo è più cielo sopra un mare più mare e lanciarmi nel vuoto e planare con ali spuntate da chissàdove e ridere di me di te di tutto ciò che più amo e sogno e giocare con le nuvole rincorrerle e disfarle per poi ricomporle in forme buffe e stravaganti e poi riprendere fiato e ricominciare tutto daccapo tutto d’un fiato.
Mi sono spaiata
Sì, lo so.
La storia dei calzini è ormai storia.
Ha bucato, per un po’, ma ora anche basta.
Io, però, l’ho voluta rammendare (che sta per “ricordare, con il raffreddore, senza perdere il filo”).
E sì.
Perché sono arrivata alla conclusione che siamo tutti il calzino spaiato di qualcuno.
Stesso colore, stessa taglia, stessa lunghezza.
Due simpatici calzini spaiati.
Due calzini che hanno, però, spaiato strada.
E sono andati a finire in due cassetti diversi, in due case diverse, in due vite diverse.
Ma fato sta che i calzini si ritrovano sempre.
E sono proprio carini insieme.
Proprio una bella coppia!
Una coppia di calzini con qualche buco, qua e là.
Ma chi non ha bu, chi?
Tutto a posto
Guardo le cose da lontano.
Ma non le vedo bene.
(io, miope)
Allora mi avvicino.
Ma non le vedo meglio.
(io, presbite in divenire)
Non metto a fuoco ciò che mi brucia dentro.
I miei soliti controsensi.
Sono fatta di controsensi, di doppisensi, di nonsense, di sensibilità apparentemente insensibili.
Tutto questo, sì.
Tutto a posto.
Lo stesso posto.
Magari cambio posto.
Ma i posti sono già tutti occupati.
Ed ecco che, come sempre, mi sento fuori posto.
(io, spostata)
Cambio luogo.
Cambio stagione.
Cambio armadio.
(io, che come scheletro abito da sempre lo stesso armadio)
Ma i fantasmi no.
Quelli me li tengo.
Non li sposto e non li cambio.
Sono capi espiatori di un armadio – la (mia) vita – pieno di cose che mi stanno ormai troppo strette.
(io, Don Chisciotte contro i panni stesi al vento)
Non so chi sono.
Non so perché scrivo.
Non so per chi scrivo.
(io, tutto questo e nient’altro ancora)
(io, forse io)
Stanze private
Pensieri come stanze.
Enormi stanze vuote.
Stanze private.
Private di me.
Private di tutto ciò che mi appartiene.
Private di un senso.
Di appartenenza.
Apparentemente sto bene.
“Sì, mamma, è tutto a posto.”
A parente mente.
Non c’è più niente al suo posto.
Queste stanze sono vuote.
Ma c’è ancora il segno di ciò che era.
Ed ora non è più.
Il segno di me.
La mia sagoma, lì per terra.
Qualcuno mi ha fatto fuori.
Ma io sono ancora dentro.
Dentro queste enormi stanze vuote.
In tutte queste stanze.
Il detective indaga.
Ma non trova indizi.
“Lei conosceva la vittima?”
“No.”
Forse un po’ sì.
Era una delle tante me.
Ma non ci stava con la testa.
Con la mia testa.
Non ci sono più voci, in queste enormi stanze vuote.
Solo l’eco, a ricordo di un suono che prima c’era.
Prima.
Con l’eco non collego.
Con l’ego, il mio ego, forse ritrovo un pensiero, una parola, me.
E invece no.
Resto qui a guardarmi intorno in queste enormi stanze vuote.
Del resto non c’ho capito molto.
Dell’andar via ancora meno.
Sei brutta quando piangi
“Sei brutta quando piangi”, le disse.
“Proprio brutta.”
Voleva farla smettere.
Voleva consolarla, ma l’unica cosa che riuscì a dire fu solo “Sei brutta quando piangi”.
E dentro pensava tutto il contrario.
Sentiva quasi d’amarla di più.
Lei, indifesa, avvilita e con gli occhi pieni di lacrime.
Che le scendevano copiose lungo le guance.
Gli si stringeva il cuore a vederla così.
Eppure restava immobile, incapace di fare l’unica cosa che avrebbe avuto un senso: abbracciarla.
Temeva di sciupare, forse, quella scena così tragica eppure così bella.
Lacrime teatrali.
Teatrali come la pioggia.
Lo aveva letto da qualche parte, sì.
E ne era rimasto colpito.
Colpito da una frase che sentiva come appartenergli.
Ed oggi aveva capito perché.
Quelle lacrime erano la pioggia che il suo cuore attendeva da tanto.
Un cuore in stand-by, non certo arido, ma fermo, in attesa di ricominciare a battere per la persona giusta.
Lei.
Lei era la persona giusta.
Lo sentiva dentro.
La sentiva dentro.
Ed ora era lì, piccola e indifesa.
Tutta da proteggere.
E tutta da amare.
Lì, in attesa di cosa?
In attesa di un abbraccio.
Di un suo abbraccio.
Sì.
Il suo cuore era in ammollo già da un po’.
“Basta piangere”, pensò.
E le si avvicinò, sorridendo.
Come solo un arcobaleno dopo la pioggia sa fare.
Scusa, come hai detto che mi ami?
Tesoro, amore, puccipucci, trottolina, cucciolotta, passerotto, fragolina, tenerezza…
Mille nomignoli che vogliono dire tutto.
E niente.
Un sentimento, se c’è, soffocato da paroline sdolcinate, che esprimono più abitudine che amore.
Allora mi viene da dire:
“Scusa, come hai detto che mi ami?”