Englishman in New York

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Mi faccio tanti film.
E sono film fatti in casa.
Su pellicola domopak.
Ma mi dicono dalla regia che devo smettere di farmi tutti questi film.
E lo dicono a me.
Sì, a me.
Che ho già scelto pure la colonna sonora.
Brani di ogni genere.
Protagonisti, essi stessi, del mio passato.
E del mio presente.
Jazz, pop, bossa…
C’è sempre una musica che bossa alla mia porta.
E che mi porta via con sé.
E con tutti i miei “se”.
E questa sera il mio film è in bianco e nero.
Come i due colori che sento dentro, da sempre.
Buio e luce.
Metto sempre le cose in chiaroscuro, io.
Per godere meglio dei contrasti.
Come quelli che sa regalare una città che ho nel cuore: New York.
Città in bianco e nero descritta, disegnata, in questa poesia che amo:

Alla giovane cassiera di Sbarro, Times Square, NYC
[di R. Uberti in Tetralogia Newyorkese]

È un’ora di pranzo credo come tutte le altre
sulla prua di Times Square orientata a nordovest
e tu hai un sorriso da gallina sventrata mentre infili la mia cartadicredito
dentro un paio di labbra di plastica e mi dici tenkiù.
Ho un vassoio con un po’ di pasticcio di pasta e del pollo
credo oramai arrugginito. Tra un attimo siederò a un tavoletto
addosso a una vetrina dove mi sento in faccia alla folla.
E tu intanto dirai altri dieci e poi dieci e poi dieci tenkiù
a chi compra il tuo pollo oramai arrugginito.
In faccia a tutta la folla che cosparge ricopre la prua di Times Square
in piena navigazione verso porti mai visti
sei soltanto la piccola buccia
di una vecchia banana gettata su un marciapiedi esigente.

(E in sottofondo Sting se la canta – e ce le canta)
“Be yourself, no matter what they say”