Che giornata del Katze!

Amo gli animali.
Me lo ripeto tutte le mattine guardandomi allo specchio.
Ma più di tutti amo i gatti.
Sì, c’è chi ama i cani e chi ama i gatti.
Io amo i gatti.
Da qualche parte ho letto, da ragazzina, che l’amore per i gatti è in qualche modo legato al sesso.
Ma tutto questo non ha sesso!
O forse sì?
In fondo deve pur esserci una qualche correlazione con l’equivalente tedesco per gatto: Katze.
Sì, proprio Katze.
“Ma di che Katze stai parlando, Pazza?”
Del gatto, in tedesco!
Beh, in effetti anche gli inglesi hanno i loro cats…
Ma farsi capire non è mai facile, eh.
Fra intendersi e fraintendersi è un attimo.
Ed io che nella Giornata Mondiale del Gatto cercavo solo di essere sul pezzo.
E invece sto sul Katze.
Anche il mio gatto mi guarda e se la ride.
Sotto i baffi.
Vabbè, vado a giocare un po’ con lui.
Scusate, torno topo.

Il nome dei gatti

E’ una faccenda difficile mettere il nome ai gatti;
niente che abbia a che vedere, infatti,
con i soliti giochi di fine settimana.
Potete anche pensare a prima vista,
che io sia matto come un cappellaio,
eppure, a conti fatti,
vi assicuro che un gatto deve avere in lista,
TRE NOMI DIFFERENTI. Prima di tutto quello che in
famiglia
potrà essere usato quotidianamente,
un nome come Pietro, Augusto, o come
Alonzo, Clemente;
come Vittorio o Gionata, oppure Giorgio o Giacomo
Vaniglia –
tutti nomi sensati per ogni esigenza corrente.
Ma se pensate che abbiano un suono più ameno,
nomi più fantasiosi si possono consigliare:
qualcuno pertinente ai gentiluomini,
altri più adatti invece alle signore:
nomi come Platone o Admeto, Elettra o
Filodemo –
tutti nomi sensati a scopo familiare.
Ma io vi dico che un gatto ha bisogno di un nome
che sia particolare, e peculiare, più dignitoso;
come potrebbe, altrimenti, mantenere la coda
perpendicolare,
mettere in mostra i baffi o sentirsi orgoglioso?
Nomi di questo genere posso fornirvene un quorum,
nomi come Mustràppola, Tisquàss o Ciprincolta,
nome Babalurina o Mostradorum,
nomi che vanno bene soltanto a un gatto per volta.
Comunque gira e rigira manca ancora un nome:
quello che non potete nemmeno indovinare,
né la ricerca umana è in grado di scovare;
ma IL GATTO LO CONOSCE, anche se ma lo confessa.
Quando vedete un gatto in profonda meditazione,
la ragione, credetemi, è sempre la stessa:
ha la mente perduta in rapimento ed in contemplazione
del pensiero, del pensiero, del pensiero del suo nome:
del suo ineffabile effabile
effineffabile
profondo e inscrutabile unico NOME.

T.S. Eliot
(Old Possum’s Book of Practical Cats)

Mi faccio un dramma

E lo so che sono strana.
Ora rido.
Poi piango.
Rido di nuovo.
Dovrei farla finita ma la faccio infinita.
C’è che vivo di emozioni forti.
Azioni sempre in rialzo o in ribasso.
Dovrei andare in una Spa, per recuperare la forza delle mie azioni.
Ma tanto non servirebbe a niente.
Una volta fuori mi ritroverei dentro di nuovo.
Come se ne esce?
Non c’è via d’uscita.
Eppure continuo a gridare: “Fuori!”
Ma nessuno risponde a quel nome.
Eh, l’importanza di chiamarsi Fuori.
Dovrei farci un film dei miei.
Roba da Oscar.
Wilde.

[Ok. Esco. Di scena.]

Dottore, Avvocato, Conte, Marchese, Duca, … <—– [titoli di coda]

Sono una bastafeste

Tutti a pensare alle vacanze.
Alle ferie.
Alle feste.
Io, invece, no.
Ma anche sì.
Cioè, non so.
La festa mi infesta.
E mi annoia.
Io penso molto di più quando ho meno tempo.
Per me e per gli altri.
Se mi sto stretta, cerco di uscire.
E allora faccio,
penso,
dico,
amo,
vivo.

Ma se c’è troppo spazio (e tempo) mi muovo male.
O non mi muovo affatto.
Sono pigrissima anche quando penso.
E chi mi accidia a me?

Quindi: basta feste!
Torniamo tutti a lavoro.
Sì, ora starete pensando: “E tornaci tu!”
Va bene, ok.
Chiedo aiuto ai miei amici a quattro zampe.
Organizzo una pet-izione.
E poi vedrete.
Lascerò un segno.
Un’impronta.
Forse più di una.
(i miei amici animali mi hanno lasciato un ricordo. Io l’ho pestato. Ecco)

Beh, basta
Ritorno in me.
Così mi sto stretta.
E cerco di evadere.

(lo so: ho una strana evasione della vita, io)

Torno subito

Vado al massimo.
Ma torno subito.
Come minimo.
Non potrei restare lì a lungo.
Non ci sono abituata.
Però mi piace.
Andare al massimo, dico.
C’è da stare bene, lì.
E’ tutto così allegro, vivo, divertente.
No.
Non posso permettermelo.
Non sempre.
Ma ogni tanto mi piace andarci, sì.
Al massimo torno subito.
Dopo.

Il mio mal di te sta nel cuore

“Ho mal di testa.”
“Ma se non hai una testa, tu!”
“Embè? Mi fa male, ti dico.”
“Come può farti male ciò che non hai?”
“E’ proprio qui che ti sbagli. Fa sempre più male ciò che non si ha. O ciò che si è avuto in passato ed ora non c’è più.”
“Allora dimmi. Raccontami della tua testa. E del tuo dolore.”

“Ho perso la testa quando ho capito di averla molto a cuore.
Era nel posto sbagliato, forse.
Cuore e testa: due nemici/amici giurati.
Ed il processo (di rottura) inevitabile.
Dove c’era uno non poteva esserci l’altro.
E così sempre.
Allora giù litigi per stabilire chi dei due avesse ragione.
Il cuore, bravo ad argomentare per (cu)ore e (cu)ore, senza mai arrivare al cuore (della questione).
E la testa, ragionamenti a non finire per poter dimostrare di essere l’unica ad aver diritto di ragione.

E in uno di questi ragionamenti infiniti la mia testa si è persa.
E non è più tornata.
Ha lasciato campo libero ad un cuore subito pronto a dettar legge (“Al cuor non si comanda!”).
E giù emozioni una più forte dell’altra, passioni sfrenate e dunque incontrollabili, lacrime dolci e amare.
Una giostra emotiva senza (e)motivo.

Ed è lì che, tra un pianto ed un sorriso, ho cominciato a realizzare di avere una mancanza.
Di avere una mancanza, sì.
O meglio: di non avere una presenza.
Ed ecco il dolore.
Il dolore per ciò che non c’è.
Il dolore per un vuoto che sembra incolmabile.
Il dolore vivo per ciò che non vive più.

E mi fa male, sì.
Perché il cuore ha bisogno della testa, anche solo per litigare.
O per mitigare i suoi sbalzi d’amore.

Devo ritrovare ciò che ho perduto.
Lo devo fare per me.
Solo per me.

Te sta’ qui.
Io vado e torno.
(e te lo dico così: col cuore in mano)”

Di quei giorni in cui ti senti bellissima

E ti guardi allo specchio.
E ti stupisci.
Ché di solito non ti piace quello che quel tipo lì ti mostra a muso duro.
No.
E allora passi minuti e minuti e minuti che fanno presto a diventare ore e li passi lì,
davanti a lui, perché proprio non ti piaci.
E tu tutti quei minuti lì davanti proprio non te li puoi permettere.
Ché sei sempre in ritardo.
E te lo dicono tutti.
E tu arrivi trafelata e di corsa, accampando mille scuse, “c’era traffico”, “la macchina non partiva”, “ero già vestita e mi sono macchiata col caffè macchiato” e…
Basta.
Tanto non ti crede più nessuno.
Ti conoscono bene, ormai.
Come il tuo specchio.
“Specchio, specchio delle mie brame. Se non sono io la più bella del reame non dirmelo, per favore.”
Tanto quello non ti ascolta mai.
Parla prima ancora di riflettere.
E ti mostra quella tipa strana che proprio non ti piace.
Te la mostra, la mostra.
E tu sei già in ritardo e continui a risistemare il mascara, no no, meglio il rossetto, accidenti! era meglio quello di prima, e i capelli, un disastro! mai in ordine, mai!

Ma oggi ti guardi allo specchio e ti stupisci.
C’è qualcosa di strano.
Più strano del solito.
Qualcuno deve aver cambiato qualcosa.
O qualcosa, forse, ha cambiato te.
Boh?
Ti guardi ancora e ti piaci!
Sì, ti piaci!
Il mascara è ok.
Il rossetto pure.
E i capelli, poi!
Hai quasi paura di toccarli quei capelli così neri e ricci e in disordine perfetto.
Hai paura di rompere l’incantesimo.
Stavolta lo specchio ti sta dicendo che sei tu la più bella del reame.
Proprio tu.
E tu incassa e porta a casa.
Anzi no: porta fuori ché ti stanno aspettando.
Magari per una volta arrivi pure in orario.

(di quei giorni in cui ti senti bellissima)
(giorni così: senza un per chi)
(forse per te)

Tutto a posto

Guardo le cose da lontano.
Ma non le vedo bene.
(io, miope)
Allora mi avvicino.
Ma non le vedo meglio.
(io, presbite in divenire)

Non metto a fuoco ciò che mi brucia dentro.
I miei soliti controsensi.
Sono fatta di controsensi, di doppisensi, di nonsense, di sensibilità apparentemente insensibili.
Tutto questo, sì.
Tutto a posto.
Lo stesso posto.
Magari cambio posto.
Ma i posti sono già tutti occupati.
Ed ecco che, come sempre, mi sento fuori posto.
(io, spostata)

Cambio luogo.
Cambio stagione.
Cambio armadio.
(io, che come scheletro abito da sempre lo stesso armadio)

Ma i fantasmi no.
Quelli me li tengo.
Non li sposto e non li cambio.
Sono capi espiatori di un armadio – la (mia) vita – pieno di cose che mi stanno ormai troppo strette.
(io, Don Chisciotte contro i panni stesi al vento)

Non so chi sono.
Non so perché scrivo.
Non so per chi scrivo.
(io, tutto questo e nient’altro ancora)

(io, forse io)

Scusa, come hai detto che mi ami?

Tesoro, amore, puccipucci, trottolina, cucciolotta, passerotto, fragolina, tenerezza…

Mille nomignoli che vogliono dire tutto.

E niente.

Un sentimento, se c’è, soffocato da paroline sdolcinate, che esprimono più abitudine che amore.

Allora mi viene da dire:

“Scusa, come hai detto che mi ami?”