Attimi di sabbia

Attimi che se ne vanno
Prima ancora di averli davvero compresi
o semplicemente presi

Granelli di sabbia

. ..    .     .
. ..  .   .
.  .    .. .

Che non saranno mai miei
né del mare che li guarda
(crede)
ogni giorno

Svuoto la memoria
Per giustificare i vuoti che arrivano in automatico
Come da manuale
Quello che dovrei scrivere
E poi distribuire a chi dice di non capirmi o a chi ha la pretesa di conoscermi

Non so, no.
(io)
Forse riavvolgo il nastro della mia vita
Solo per guardarmi
“Replay it again, Sam”

Come se avessi il coraggio di vedere tutti i film
In cui ho solo fatto da comparsa
O scompar(Puff!)

Englishman in New York

Sting-Englishman-In-New-York

Mi faccio tanti film.
E sono film fatti in casa.
Su pellicola domopak.
Ma mi dicono dalla regia che devo smettere di farmi tutti questi film.
E lo dicono a me.
Sì, a me.
Che ho già scelto pure la colonna sonora.
Brani di ogni genere.
Protagonisti, essi stessi, del mio passato.
E del mio presente.
Jazz, pop, bossa…
C’è sempre una musica che bossa alla mia porta.
E che mi porta via con sé.
E con tutti i miei “se”.
E questa sera il mio film è in bianco e nero.
Come i due colori che sento dentro, da sempre.
Buio e luce.
Metto sempre le cose in chiaroscuro, io.
Per godere meglio dei contrasti.
Come quelli che sa regalare una città che ho nel cuore: New York.
Città in bianco e nero descritta, disegnata, in questa poesia che amo:

Alla giovane cassiera di Sbarro, Times Square, NYC
[di R. Uberti in Tetralogia Newyorkese]

È un’ora di pranzo credo come tutte le altre
sulla prua di Times Square orientata a nordovest
e tu hai un sorriso da gallina sventrata mentre infili la mia cartadicredito
dentro un paio di labbra di plastica e mi dici tenkiù.
Ho un vassoio con un po’ di pasticcio di pasta e del pollo
credo oramai arrugginito. Tra un attimo siederò a un tavoletto
addosso a una vetrina dove mi sento in faccia alla folla.
E tu intanto dirai altri dieci e poi dieci e poi dieci tenkiù
a chi compra il tuo pollo oramai arrugginito.
In faccia a tutta la folla che cosparge ricopre la prua di Times Square
in piena navigazione verso porti mai visti
sei soltanto la piccola buccia
di una vecchia banana gettata su un marciapiedi esigente.

(E in sottofondo Sting se la canta – e ce le canta)
“Be yourself, no matter what they say”

Mi faccio un dramma

E lo so che sono strana.
Ora rido.
Poi piango.
Rido di nuovo.
Dovrei farla finita ma la faccio infinita.
C’è che vivo di emozioni forti.
Azioni sempre in rialzo o in ribasso.
Dovrei andare in una Spa, per recuperare la forza delle mie azioni.
Ma tanto non servirebbe a niente.
Una volta fuori mi ritroverei dentro di nuovo.
Come se ne esce?
Non c’è via d’uscita.
Eppure continuo a gridare: “Fuori!”
Ma nessuno risponde a quel nome.
Eh, l’importanza di chiamarsi Fuori.
Dovrei farci un film dei miei.
Roba da Oscar.
Wilde.

[Ok. Esco. Di scena.]

Dottore, Avvocato, Conte, Marchese, Duca, … <—– [titoli di coda]

In prima visione

E improvvisamente scopro che tu hai una vita al di fuori di qui.
Qui è qui.
Il mio cuore è qui.
E tu non sei qui.
Sei la proiezione dei miei desideri e delle mie illusioni, ma non sei qui.
E sì che me ne faccio film io.
Ma che me ne faccio poi?
“Li puoi rivedere quando vuoi.”
“Ti ci puoi immedesimare come vuoi.”
“Li puoi…”
Vabbè, ho capito.
Basta con queste repliche.
E poi in testa ho una multisala, io.
E stasera, in sala 1, danno un film in prima visione assoluta.
Non posso certo mancare alla prima.
Di una lunga serie.
Magari potrei proporre una serie tv.
“Ma siamo serie: chi vuoi che prenda in considerazione i nostri film girati in casa su pellicola domopak?”
Scusa.
Parlavo col cast.
“Sì e tu sei la diva: cast diva. Ma facci il piacere!”
“Beh, quello è tutto mio. E di certo non lo faccio a voi.”

S’è fatta sera.
Chiudo le tende.
O, come dicono gli inglesi, the end.