Tutto d’un fiato così voglio scrivere tutto d’un fiato senza fermarmi senza pensare come se tutto fosse già pronto per uscire e volare volare volare lì dove il cielo è più cielo sopra un mare più mare e lanciarmi nel vuoto e planare con ali spuntate da chissàdove e ridere di me di te di tutto ciò che più amo e sogno e giocare con le nuvole rincorrerle e disfarle per poi ricomporle in forme buffe e stravaganti e poi riprendere fiato e ricominciare tutto daccapo tutto d’un fiato.
Mi sono spaiata
Sì, lo so.
La storia dei calzini è ormai storia.
Ha bucato, per un po’, ma ora anche basta.
Io, però, l’ho voluta rammendare (che sta per “ricordare, con il raffreddore, senza perdere il filo”).
E sì.
Perché sono arrivata alla conclusione che siamo tutti il calzino spaiato di qualcuno.
Stesso colore, stessa taglia, stessa lunghezza.
Due simpatici calzini spaiati.
Due calzini che hanno, però, spaiato strada.
E sono andati a finire in due cassetti diversi, in due case diverse, in due vite diverse.
Ma fato sta che i calzini si ritrovano sempre.
E sono proprio carini insieme.
Proprio una bella coppia!
Una coppia di calzini con qualche buco, qua e là.
Ma chi non ha bu, chi?
Tutto a posto
Guardo le cose da lontano.
Ma non le vedo bene.
(io, miope)
Allora mi avvicino.
Ma non le vedo meglio.
(io, presbite in divenire)
Non metto a fuoco ciò che mi brucia dentro.
I miei soliti controsensi.
Sono fatta di controsensi, di doppisensi, di nonsense, di sensibilità apparentemente insensibili.
Tutto questo, sì.
Tutto a posto.
Lo stesso posto.
Magari cambio posto.
Ma i posti sono già tutti occupati.
Ed ecco che, come sempre, mi sento fuori posto.
(io, spostata)
Cambio luogo.
Cambio stagione.
Cambio armadio.
(io, che come scheletro abito da sempre lo stesso armadio)
Ma i fantasmi no.
Quelli me li tengo.
Non li sposto e non li cambio.
Sono capi espiatori di un armadio – la (mia) vita – pieno di cose che mi stanno ormai troppo strette.
(io, Don Chisciotte contro i panni stesi al vento)
Non so chi sono.
Non so perché scrivo.
Non so per chi scrivo.
(io, tutto questo e nient’altro ancora)
(io, forse io)
Stanze private
Pensieri come stanze.
Enormi stanze vuote.
Stanze private.
Private di me.
Private di tutto ciò che mi appartiene.
Private di un senso.
Di appartenenza.
Apparentemente sto bene.
“Sì, mamma, è tutto a posto.”
A parente mente.
Non c’è più niente al suo posto.
Queste stanze sono vuote.
Ma c’è ancora il segno di ciò che era.
Ed ora non è più.
Il segno di me.
La mia sagoma, lì per terra.
Qualcuno mi ha fatto fuori.
Ma io sono ancora dentro.
Dentro queste enormi stanze vuote.
In tutte queste stanze.
Il detective indaga.
Ma non trova indizi.
“Lei conosceva la vittima?”
“No.”
Forse un po’ sì.
Era una delle tante me.
Ma non ci stava con la testa.
Con la mia testa.
Non ci sono più voci, in queste enormi stanze vuote.
Solo l’eco, a ricordo di un suono che prima c’era.
Prima.
Con l’eco non collego.
Con l’ego, il mio ego, forse ritrovo un pensiero, una parola, me.
E invece no.
Resto qui a guardarmi intorno in queste enormi stanze vuote.
Del resto non c’ho capito molto.
Dell’andar via ancora meno.
Sei brutta quando piangi
“Sei brutta quando piangi”, le disse.
“Proprio brutta.”
Voleva farla smettere.
Voleva consolarla, ma l’unica cosa che riuscì a dire fu solo “Sei brutta quando piangi”.
E dentro pensava tutto il contrario.
Sentiva quasi d’amarla di più.
Lei, indifesa, avvilita e con gli occhi pieni di lacrime.
Che le scendevano copiose lungo le guance.
Gli si stringeva il cuore a vederla così.
Eppure restava immobile, incapace di fare l’unica cosa che avrebbe avuto un senso: abbracciarla.
Temeva di sciupare, forse, quella scena così tragica eppure così bella.
Lacrime teatrali.
Teatrali come la pioggia.
Lo aveva letto da qualche parte, sì.
E ne era rimasto colpito.
Colpito da una frase che sentiva come appartenergli.
Ed oggi aveva capito perché.
Quelle lacrime erano la pioggia che il suo cuore attendeva da tanto.
Un cuore in stand-by, non certo arido, ma fermo, in attesa di ricominciare a battere per la persona giusta.
Lei.
Lei era la persona giusta.
Lo sentiva dentro.
La sentiva dentro.
Ed ora era lì, piccola e indifesa.
Tutta da proteggere.
E tutta da amare.
Lì, in attesa di cosa?
In attesa di un abbraccio.
Di un suo abbraccio.
Sì.
Il suo cuore era in ammollo già da un po’.
“Basta piangere”, pensò.
E le si avvicinò, sorridendo.
Come solo un arcobaleno dopo la pioggia sa fare.
Scusa, come hai detto che mi ami?
Tesoro, amore, puccipucci, trottolina, cucciolotta, passerotto, fragolina, tenerezza…
Mille nomignoli che vogliono dire tutto.
E niente.
Un sentimento, se c’è, soffocato da paroline sdolcinate, che esprimono più abitudine che amore.
Allora mi viene da dire:
“Scusa, come hai detto che mi ami?”
Non ho il blog dello scrittore
Non ci sto capendo molto e questo mi piace.
Ché le cose semplici da capire si rivelano spesso le più noiose.
Ed io mi annoio facilmente.
Una cosa l’ho capita, però:
non ho il blog dello scrittore.
L’ho aperto ieri ed ho scritto tre pazzate.
Sì, pazzate.
Vi aspetto.
Voi non aspettatevi niente più di questo, però.
Uomo avvisato, pazzo salvato.
Aggiungi un post a tavola
Che ora è?
L’ora giusta per dire la mia.
Se volete posso dire anche la vostra.
Tanto le parole non mi mancano.
Mai.
E questo è un guaio.
Ché se ogni tanto riuscissi a tenerle per me, magari…
No, dico, magari!
E invece parlo parlo parlo.
Pure a tavola.
Come adesso.
E’ che mi hanno detto:
“Oggi a pranzo ci sarà anche Francesco. Aggiungi un posto?”
Ed io ho capito post.
Vabbè.
Aggiungo un post a tavola.
Poi prendo anche una sedia.
sono Pazza io
Eccomi qui.
Anche qui, penserete.
Non se ne può più, aggiungerete.
Parla pure da sola, direte.
Ma voi chi?
Chi siete?
Ma chi sei tu! risponderete.
Beh, io sono quella povera stolta che parla di se (ma anche di forse e ma e magari e chissà…) da un anno e mezzo a questa parte su twitter.
Insomma una pazza tra tanti.
Almeno io non fingo di essere ciò che non sono.
L’ho detto o non l’ho detto che sono Pazza io?